Il corpo come spazio simbolico nell’arte africana
La nostra associazione ha approfittato della permanenza nel Salento di fra Ettore Marangi per chiedergli un incontro con la comunità galatinese, con la quale il filo non si è mai interrotto: in una calda serata d’estate abbiamo potuto ascoltare racconti di vite geograficamente lontane e vedere che sono più vicine a noi di quanto potessimo sospettare.
L’occasione è stata quella di una riflessione guidata sull’arte africana che ci ha messo in condizioni di scoprire quanto già sospettavamo: l’arte è profondamente legata alla spiritualità ma soprattutto all’uomo, alla donna, ai loro corpi e alla comunità.
Passando in rassegna i caratteri fondamentali dell’arte occidentale che essenzialmente è stata sempre mimesi, riproduzione del reale, ricorso ad un ideale di bellezza e di conformità che spesso ha limitato più che facilitare la crescita dell’uomo, fra Ettore ha sottolineato che il contenuto dell’arte africana invece può essere capace di vivificare non solo l’arte europea (come era accaduto con Picasso) ma anche la fede occidentale.
Innanzitutto l’arte africana è arte simbolica. Il simbolo originariamente era un oggetto di coccio che veniva separato in due parti condivise da due persone come segno di riconoscimento, per cui il pezzo tenuto da uno combaciava perfettamente con quello tenuto dall’altro: oggi la parola simbolo la usiamo per riferirci a una realtà collegata ad un’altra che è dunque essenziale alla prima. Il bacio, la luna, il sole, l’acqua, il vino, sono simboli forti alcuni dei quali richiamano l’amore: funzionano dappertutto perchè sono un linguaggio universale che non può essere espressa attraverso la rappresentazione dell’ideale. L’arte africana quindi è un’arte simbolica,ma – e qui la denuncia – proprio in questo suo carattere è stata nel tempo rifiutata dal cristianesimo cattolico e protestante: oggi, dice fra Ettore, è molto frequente trovare studenti africani di teologia innamorati dell’arte sacra europea e che disprezzano l’arte tradizionale africana e questa è una situazione di crisi antropologica molto grave, perché il cristianesimo diventa acculturazione a valori estranei a quelli africani.
Fra Ettore ha portato con sé una statuetta africana e una maschera intarsiata nel legno:la statuetta africana è femminile con grandi seni e piccoli piedi, noi forse facilmente la definiremmo esteticamente brutta o la chiameremmo, disprezzandola, “feticcio”. In realtà essa esprime una forte spiritualità: tu guardi quella statuetta e non puoi fare a meno di sentirla, può essere bella o può essere brutta ma la “senti”, fai un’esperienza di rivelazione perché non ti fermi a contemplare un’ideale di perfezione. Le statue europee di santi o madonne realizzate in serie, tutte uguali secondo modelli estetici standardizzati rappresentano un ideale e così ci allontanano dalla terra, dai corpi, dal “Verbo che si è fatto carne ed ha abitato tra noi” e da quello che preghiamo nel Padre Nostro “così in cielo come in terra”: laddove tutta la realtà dovrebbe essere vissuta in queste dimensioni simboliche che l’arte africana possiede come caratteri propri, invece il grave rischio è che gli africani stessi, obbligati in questo continuo e umiliante sforzo di conformarsi agli ideali occidentali, alla fine perdano questa dimensione che sarebbe fondamentale anche per noi occidentali recuperare.
Il secondo carattere messo in luce da fra Ettore è che l’arte africana non è un’arte da museo: se le maschere si appendono sul muro del salotto,muoiono perché il simbolo parla da sé, non si spiega ma è legato alla vita. In Africa in molte zone e realtà, nel presente e nel passato la Chiesa ha vietato le danze tribali perché sono un’alternativa concreta ai riti cristiani: l’arte africana è evento, rito, danza. Quando l’africano indossa la maschera e danza, sa di non essere più lui ma diventa l’antenato che ha dato la vita per la sua comunità e adesso la protegge e dona ad essa speranza, diventa voce profetica che parla alla comunità e la danza apre la porta a questa dimensione:l’invito di fra Ettore è quello di recuperare questa dimensione simbolica del nostro corpo.
In questa calda serata che abbiamo trascorso sotto le stelle nel chiostro dell’ex monastero di santa Chiara, si sono intrecciati due luoghi quello africano e quello salentino: per entrambi la comunità è un’esperienza vitale e forte, una visione simbolica diversa della realtà. L’africano non conosce l’individualismo europeo, è la comunità che risveglia in lui tutta una potenza di vita che a noi è sconosciuta. L’esperienza che fra Ettore sta vivendo negli slum di Nairobi gli ha fatto toccare con mano questa verità: a partire dalla proprietà della terra, i tanti progetti che sta portando avanti nascono e crescono in un cammino comunitario e tra tutti la sfida più coraggiosa è forse quella della scuola secondaria nella baraccopoli perchè è resistenza culturale alla colonizzazione mentale che la scuola kenyana (organizzata sul modello inglese) opera sulla gioventù africana.
Il messaggio più forte con cui torniamo alle nostre case al termine di questa serata così coinvolgente grazie anche alla delicata preghiera di Tyna Maria e del suo gruppo Gospel, è quello ad uscire fuori dall’egocentrismo e dall’individualismo per diventare tessuto con gli altri, trama di fili intrecciati di colori diversi: è questo il messaggio che viene dall’Africa, che è madre perché <<probabilmente siamo nati tutti neri e solo dopo siamo diventati un po’ più bianchi>>.
Lascia un Commento