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Noi che osiamo dubitare

Presentazione del libro di Maria Soave Buscemi,   biblista e missionaria

 

 

 

 

Grazie e buonasera a tutte e a tutti.

A me piace dire che sono nata in Salento,non ci sono mai vissuta però perché sono nata settimina il 13 agosto mentre mamma era in acqua a fare il bagno ed eravamo a casa di nonna.   Papà  e mamma si erano conosciuti a Milano e si sono sposati a Milano,  il loro figlio più grande è  nato a Milano e io sono la figlia di mezzo che ha deciso di venire al mondo in un giorno di quasi ferragosto.   C’è  questo legame forte che mi lega al Salento perché  è  una terra di mezzo esattamente come Milano che è  terra di mezzo,  una città  in mezzo alla pianura e come la terra di mezzo che è  la terra del Brasile dove ho vissuto per vent’anni nell’altipiano della zona più  fredda del Brasile.  Negli ultimi anni sono in profonda Amazzonia,  in una terra che si chiama Xingu:  dopo l’ultimo aeroporto,  quindici ore di asfalto e quindici ore di terra per raggiungere l’ultimo posto di terra e poi se ci si deve spostare sono giorni di barca in mezzo al fiume Xingu ed è  il viaggio che farò  tra meno di dieci giorni perché  sono di ritorno proprio in questa regione dell’Amazzonia.

Io inizierei questo incontro chiedendovi di fare un esercizio,  cioè  ciascuno e ciascuna prenda una copia del libro perché  insieme cerchiamo di interpretare iniziando dalla copertina:  io sono molto contenta di questa foto di copertina perché  mi accompagna da tantissimi anni,  ce l’avevo sempre nella Bibbia fino a quando la Fondazione di questo grande fotografo mondiale me l’ha ceduta perché  potesse essere la copertina.

Questa fotografia è  di un grande grande fotografo che forse avete già  sentito nominare,  si chiama Sebastiao Salgado,  è  un grande fotografo mondiale e molte sue mostre fotografiche hanno girato il mondo:  una molto famosa aveva come titolo “Exodus”,  un’altra riguardava tutta l’esperienza dell’Africa,  l’esperienza drammatica dell’essere profughi e profughe e questa foto viene dallo stesso posto da cui viene questo tessuto di mille colori che vedete per terra:  la foto in bianco e nero e il tessuto a mille colori e mi piace metterli insieme perché  vengono dallo stesso popolo.  Questa foto viene dal Chiapas,  dal sud del Messico che fa frontiera con il Guatemala e questo tessuto di mille colori proviene dal Guatemala:  sono territori a cui appartengono gli stessi popoli e questa è  una foto di donne chiapegne del sud del Messico.

Vi vorrei chiedere che cosa vedete e che cosa interpretate in questa foto:   cosa vediamo e cosa interpretiamo,  perché  ci rendiamo conto che mentre vediamo stiamo già  interpretando,  nessuno ha una visione assolutamente asettica,  questo è  impossibile. Quindi,  cosa vediamo e cosa interpretiamo…   gli sguardi:  gli sguardi però  non sono tutti uguali,  quali sono le differenze?  Questa donna che è  in evidenza sta fissando più  attentamente,  mentre le altre hanno uno sguardo diverso,  non dico di stupore ma rassegnato.  Proviamo a dire che sguardi vediamo…  c’è  uno sguardo che buca e ci sono altri sguardi,  quali sono questi altri sguardi?  Ci sono due tipi di sguardo:  c’è uno sguardo austero,  c’è  uno sguardo di dubbio e poi la donna che ci guarda,  guarda chi sta guardando lei e ci sono altre donne che non guardano chi sta guardando lei.  Adesso io vi devo spiegare alcuni gesti che magari non ci appartengono:  i popoli indigeni,  quando sono inquietati o intimoriti si coprono il viso,  coprono il sorriso perché  è  un modo di dire che sono impauriti,  imbarazzati e in questo caso,  impaurite,  imbarazzate perché  nella foto sono tutte donne. Questa cosa del mettersi le mani,  del rodersi le unghie è  un modo che crea comunque intimorimento,  imbarazzo,  mentre invece c’è  lo sguardo che ti guarda,  ti fissa e non abbassa lo sguardo e questa è  un’altra cosa:  la gente indigena tendenzialmente abbassa lo sguardo perché  per cinquecento anni sono stati obbligati,  educati,  intimoriti al fatto che non bisogna sostenere lo sguardo ma bisogna abbassarlo come tutti e tutte le persone impoverite della storia.  Se ci ricordiamo della gente sui campi,  ancora oggi della gente della fatica quotidiana,   difficilmente lo sguardo guarda negli occhi il barone di turno,  il signore di turno,  il padrone di turno.  Questa donna invece buca lo sguardo con delle domande,  sostiene dei dubbi,  delle domande e non si lascia impaurire e allora era un po’  la fotografia che sembrava potesse essere espressione  –  io vengo dall’America Latina  –  di volti indigeni,  espressione di quello che poi è  il contenuto di questo libro,  che è  una serie di saggi e di scritti riguardo il dubbio e il dubbio che come donna,  nella chiesa cattolica e nella religione cristiana  io mi permetto,  la possibilità  di domandare,  la possibilità  di dubitare.  Il primo capitolo di questo libro narra esattamente la storia biblica della donna che dubitò,  che ebbe il coraggio di dubitare,  difatti il nome di questa donna appartiene solo a lei e nessun’altra donna nell’Antico Testamento si chiamerà  come lei ed è  la storia di Maria che in ebraico è  Miriam.  Ecco la storia di Miriam.  Nella storia dell’Antico Testamento Miriam è  la sorella di Mosè  ed Aronne:  Mosè,  Aronne e Miriam fanno parte di una delle tribù  di Giacobbe,  di una tribù  speciale perché   nell’Antico Testamento fu l’unica tribù  che dopo il passaggio dalla schiavitù  dell’Egitto verso la terra promessa non ebbe terra,  fu l’unica tribù  che non ebbe eredità,  non ebbe proprietà  e non ebbe terra perché  era la tribù  che aveva come vocazione essere trasparenza della presenza di Dio,  perché  l’unica eredità  era il Signore Dio liberatore da tutte le schiavitù.  Questa è  la tribù  di Levi a cui appartenevano Miriam,  Mosè  e Aronne,  l’unica tribù  sacerdotale di donne e uomini sacerdoti e sacerdotesse leviti che avevano come compito camminare con il popolo,  camminare nelle tende e non possedere nulla,  perché  l’unica eredità  era Dio il liberatore:  la caratteristica di questa tribù  era proprio il camminare tra la gente ,  il vivere di quello che la gente condivideva,  lo stare tra la gente senza possedere terra sempre in cammino,  erranti,  mendicanti,  itineranti.  Dico questo perché  poi chi viene da una tradizione francescana si rende conto di come questa spiritualità  del Primo Testamento viene poi portata avanti nel Nuovo Testamento dal movimento di Gesù  e portata avanti nella storia del cristianesimo per esempio con tutti i movimenti mendicanti ed itineranti come sono gli ordini francescani,  domenicani,  carmelitani e prima ancora tutti gli ordini monastici.

Però  succede una cosa interessante:  quando il faraone d’Egitto aveva ordinato  “tutti i figli maschi degli ebrei devono morire“,  le levatrici che si prendevano cura dicevano  “ma sai,  faraone,  le donne ebree sono forti e quando noi arriviamo loro hanno già  partorito per cui non possiamo uccidere i maschi perché  già  sono nati”  Miriam è  quella sorella che  quando questo succede,mette il bambino in una cesta  –  e difatti quei tipi di ceste,  di culle in alcuni posti del mondo  si chiamano ancora  “mosè”  proprio perché  viene da questa tradizione  –   e lo lascia andare nel fiume fino a quando la principessa del faraone se ne prende cura.

Miriam è  la sorella che canta insieme alle donne il canto più  antico di tutta la bibbia  -  come ormai  l’archeologia,  con la tecnica del carbonio 14  ci permette di datare  -   e il testo del canto di Miriam è  il testo più  o meno dell’anno 1100 prima di Cristo:  è  solo una frase perché  a quel tempo dopo la scrittura sumerica non conoscevamo i libri,  la carta e si scriveva su pezzetti di tavolette di argilla per cui quello che si poteva scrivere era una frase.  Qual’è  questa frase più antica della bibbia?  La frase più  importante?   “cantiamo a Javhè  perché  ha gettato in mare cavallo e cavaliere“  questa   è  la frase più  antica di tutta la bibbia ed è  il canto di Miriam.  Vi ricordate?  Miriam mise il piede nel mare,  piano piano il mare si aprì  e le donne presero i tamburelli e cantarono  “Cantiamo a Javhè  perché  ha gettato in mare cavallo e cavaliere ”:  questo è  il testo più  antico della bibbia e questo appartiene al canto di Miriam.   Questa è Miriam,  la sacerdotessa levita,  come suo fratello sacerdote Aronne,come suo fratello sacerdote Mosè  che condussero il popolo nel cammino della liberazione dalla schiavitù  d’Egitto.

Solo che il tempo passò  e il popolo iniziò  a dimenticare l’esperienza di Dio che libera,  l’esperienza di Dio che cammina in una nuvola e vive in una tenda insieme al suo popolo e allora iniziarono ad arrivare i re,  cioè  quelli che possedevano cavalli,  buoi e armi e tra di loro Saul il primo re,  Davide il secondo re,  Salomone il terzo re e questi re iniziarono a dire che siccome il re voleva un palazzo,  Dio non poteva stare in una tenda e voleva un tempio in modo che costruendo il tempio per Dio si potesse costruire il palazzo per il re.   Man mano,  i re non volevano più  i leviti e le levite come sacerdoti perché  questa gente insisteva nel dire che Dio non aveva bisogno di un tempio e che il re non aveva bisogno di un palazzo e che i sacerdoti e le sacerdotesse potevano vivere erranti,  mendicanti senza nulla possedere.   Capite che questo discorso ai re non andava bene perché  i re volevano un palazzo per i re e allora mandarono via i leviti,  li espulsero e il re Salomone chiamò  un altro sacerdote che era straniero,  di un’altra religione e che si chiamava Sadoch:  questo sacerdote iniziò  ad inventare una religione che diceva  “Dio non abita in tenda e se abita in tenda è  una tenda uguale ad un palazzo e sta racchiuso nel Santo dei Santi e chi può  avere accesso a Dio è  soltanto il sommo sacerdote” :  soltanto uno,  soltanto maschio e soltanto nel tempio.

Allora,  i sacerdoti del tempio raccontano questa storia:  un giorno Miriam e Aronne andarono da Mosè  e gli dissero  “com’è  che prima Dio parlava a tutti,  uomini e donne,  Dio abitava nelle tende e adesso Dio parla soltanto a te?”.  Allora Mosè  disse  “andiamo a parlare con Dio  –   ma è  chiaro che era  il Dio di Mosè  e del sommo sacerdote  –  e il Dio del sommo sacerdote iniziò  a dire  “Miriam che sta dubitando,  che sta dicendo che prima Dio parlava a tutti,  questa Miriam che osa discutere il potere del re e del sommo sacerdote,  questa Miriam sarà  maledetta e le verrà  la lebbra ”  cioè:tutte le donne che osano discutere il potere dato soltanto ad uno,  soltanto nel tempio,  soltanto al re diventeranno lebbrose.

E così  succede:  Miriam diventa lebbrosa,  ma tutto il popolo che era accampato pe poter continuare il cammino verso la terra promessa non se ne và  dall’accampamento fino a quando Miriam non sarà  guarita,  cioè  tutto il popolo dirà  “non siamo d’accordo con quello che Mosè  e il Dio di Mosè  -  che non  è  il Dio dell’Esodo  -  sta facendo con Miriam”.   Nessun’altra donna si chiamerà  con questo nome Miriam,  in tutte le decine e decine dei libri dell’Antico Testamento,  nessuna donna si chiamerà  Miriam.  Ci vorrà  il Nuovo Testamento e il movimento di Gesù  perché  quando si dirà  “Miriam”  tantissime donne si alzeranno:  Miriam di Nazareth,  la mamma di Gesù  che poi noi traduciamo in italiano Maria ma nella lingua di Gesù  è  Miriam,  Miriam di Magdala  -  la Maddalena  -  ,Miriam di Cleofa,  Miriam la donna nella cui casa c’era una prima comunità,  Miriam la sorella di Marta  …  nel Nuovo Testamento tantissime donne si chiameranno Miriam esattamente perché  Gesù  ci insegna a dubitare dei poteri che massacrano la stragrande maggioranza della gente,  che massacrano bambini,  che massacrano donne,  che massacrano la terra,  ci insegna a dubitare come quella prima Miriam sorella di Aronne e di Mosè.

Allora questo libro inizia con questa storia,  la storia di Miriam e finisce con un’altra storia piccola piccola delle uniche persone che non abbandonano Gesù  sotto la croce:  sono soltanto donne e di loro,  come raramente accade,  sistematicamente si dice il nome.  Sono sempre donne e c’è  un unico uomo che non è  Giovanni:  Giovanni non c’è  e questo ci spinge ad andare davvero a leggere i Vangeli,  Giovanni c’è  nella nostra tradizione iconografica cattolica,  in chiesa,  nell’abside se c’è  una crocifissione c’è Maria,  la mamma di Gesù  e la nostra tradizione mette quello che noi immaginiamo sia Giovanni,  ma Giovanni non è  mai mai citato sotto la croce.  Nel quarto vangelo che popolarmente chiamiamo Vangelo di Giovanni,  si dice  “il discepolo che lui amava “:  i Vangeli non sono stati scritti in italiano,  sono stati scritti in greco,  il discepolo è  una parola neutra che indica uomini e donne ed è  la comunità  del discepolato nel Vangelo di Giovanni,  che accoglie Maria e che cammina nella sequela di Gesù  e questa comunità  che Gesù  ama è  un modo di spiegare un modo di essere chiesa.  Sotto la croce c’è  invece un uomo citato per nome e cognome,  Giuseppe di Arimatea,  lui è  sotto la croce e lui è  citato nei sinottici,  è  Giuseppe che vince la paura,  và  da Pilato e chiede il corpo di Gesù,  lo scende dalla croce,  lo avvolge in panni di lino e lo mette in un sepolcro dove nessuno era stato ancora seppellito.

Invece,  in tutti i Vangeli e cioè  in Matteo,  Luca,  Marco,  Giovanni sono citate le donne e la cosa rara è  che sono citati tutti i loro nomi:  c’è  una donna che è  sempre presente sotto la croce ed è  un’altra Maria,  Maria di Magdala,  è  lei che non abbandona mai la croce,  è  lei di cui tutte le comunità  dei vangeli fanno memoria.  Poi ci sarà,  nel quarto vangelo,  la mamma di Gesù,  ci sarà  Maria di Cleofa,  ci sarà  Salomè,  ci sarà  la mamma di Tiago e Filippo,   ci saranno diverse donne nominate:  queste donne fanno delle cose precise e cioè osservano  –  sono donne osservanti  –  osservano fin da lontano,  sono donne che non diranno mai una parola,  saranno sempre in silenzio,  sotto la croce non se ne vanno ma osservano e non dicono niente.

Sono donne osservanti,  sono donne che avevano seguito e servito Gesù  fin dalla Galilea:  è  importante avere chiari questi due verbi  “avevano accolitato e diaconato Gesù”  fin dalla terra dei poveri,  fin dalla Galilea.  Galilea è  un termine che vuol dire  “niente,  nessuno,  di poca importanza  (”scusate ma non è  il figlio di Giuseppe di Nazareth,  ma potrà  mai venir qualcosa di buono da Nazareth e dalla Galilea?”)   perché  i giudei ritenevano poppiti quelli della Galilea  –  anche qui oggi si usa,  il post oppidum per dire i furesi,  quelli che non servono a niente,  tutti i popoli hanno un modo per dire che qualcuno è  post oppidum.  La Galilea era una di queste terre considerate niente,  considerate insignificanti:  le donne citate con nome cognome e provenienza avevano seguito e servito Gesù  fin dalla terra dei nessuno,  dei niente,  dei poveri,  degli straccioni,  dei senza diritti ed erano salite con lui fino a Gerusalemme.   A Gerusalemme si sale,  ma è  anche un modo di dire che non lo avevano abbandonato nel momento della salita più  dura della sua vita,  che è  stata la passione e la croce.  La lettera agli Ebrei dirà che grazie alla loro insistenza,  queste donne ebbero i loro morti risorti:  probabilmente è  per questa insistenza nel servire,  nel seguire,  nello stare,  nel non mollare che Dio Padre ha ascoltato e che Gesù  ha vinto per noi e con noi la morte attraverso la resurrezione.

Allora,  questo libro è  un cammino tra tante donne che hanno osato rompere la barriera:  sapete,  le donne sotto la croce han dovuto rompere la barriera del decreto dell’imperatore Tiberio che dava la stessa pena a chi si trovasse sotto i crocifissi e difatti,  con tutto il rispetto,  gli apostoli non c’erano:  gli Atti degli apostoli ce li faranno trovare nel Cenacolo a porte chiuse,  porte che Gesù  deve sfondare e l’unico che è  fuori è  quello con cui ce la prendiamo sempre,  l’unico che si trovava fuori e aveva vinto la paura era Tommaso.  E poi   diciamo che Tommaso non si fidava:  e ci credo!   quando Gesù apparve agli apostoli,  Tommaso non c’era,  a quando Tommaso tornò,  trovò  ancora le porte chiuse e come poteva crederci che Gesù  risorto era apparso ed era arrivato se le porte continuavano ad essere chiuse?  Allora è  chiaro il  “voglio mettere le dita,  voglio mettere le mani”… Tommaso è  proprio l’apostolo che ha il coraggio di uscire e di dubitare:“voglio metterci le mani”  perché  tutti gli altri erano ancora lì  a porte chiuse e non si decidevano a credere che Gesù  era risorto.  Una chiesa che continua a tenere le porte chiuse,  una Chiesa che non  è  in uscita,  che non và  incontro,  c he non abbraccia:  come facciamo a credere in una Chiesa di porte chiuse?  Ecco allora il coraggio di dubitare,  il coraggio di alzare il dito e fare domande,  il coraggio di uscire,  il coraggio di incontrare:  spero che questo libro aiuti in questo senso.

Poi un’altra cosa:  mi colpisce il fatto che tra poco a causa del nostro uso dello zapping che facciamo,  per cui facciamo scorrere il dito e vediamo il volto del bambino della guerra dello Yemen insieme ai bombardamenti della Siria insieme agli sconti di Zalando e  insieme alla proposta dell’ultima crociera a cinquecentotrenta euro a cabina doppia,  insieme ai bimbi che muoiono di fame,  tutto insieme a causa di questo nostro uso di tecnologie in maniera compulsiva  –  quante volte accediamo ai social in una giornata?  e con questo non sto dicendo che non dobbiamo usare,  sto dicendo che dobbiamo sempre domandarci  “a chi giova?”  –  a volte per essere così  “pluggati”,  sempre connessi a volte non abbiamo il tempo di dirci  “buona sera,  come stai,  prendiamoci un caffè insieme,  ti vengo a trovare”  …a Nardò  dove sto io,  un giorno ci scriverò  di questo mondo,  c’è  una via che si chiama  “via della misericordia segue la navigazione”:  nei nostri paesi,  quando segue la numerazione è  perché  sono i vicoli dei vicoli dei vicoli e intorno ci sono una serie di signorine,  cioè  quelle donne dei cinque,  sei,  sette,  otto figli che sono rimaste a casa,  non si sono sposate e si sono prese cura dei genitori e poi,  dopo che i genitori sono morti  -  ai tempi perché  le signorine hanno tutte oltre i novant’anni  -   sono rimaste con il pezzo di casa di mamma e papà,  la stanza,  la cucinetta poi quando è  andata bene forse il bagnetto,  la lotta per la fogna ancora oggi nel 2019   e la cosa che mi colpisce di queste signorine è  che adesso Tetta è  appena caduta  (a quell’età  è  andata al bagno,  a novantaquattro anni,  le ossa hanno ceduto,  si è  rotta il femore e non si alza più  dal letto)  ma c’è  una processione tutti i giorni per andare a vedere Tetta,  per stare con lei,  la processione tutti i mezzogiorni per portare il piattino di una melanzana fatta alla brace o piuttosto che un piattino di spaghetti.   Tutti i giorni io vedo la processione  –  e la processione  è  91,  89,  87  e và  fino a 60  ma poi no… che non sto dicendo che devi trovare la fila che ti rimane in casa ma sto dicendo di questa processione del dire  “come state,  come và  ssignoria?”  semplicemente questo e questo secondo me è  qualcosa che non possiamo perdere perché  ci fa restare umani e umane.  Allora pensavo,  ad ogni capitolo per fermarsi un po’  da questo correre,  da questo scorrere,  ho deciso di mettere dei disegni  –  adesso è  anche trendy fare le mandale o colorare,  scegliere i colori   –   ci fa riposare un attimo e fa riposare il pensiero,  perché   è   un pensiero troppo rapido perciò   scorre velocemente:  come siamo estremamente brillanti però   poi  “boh,  cosa ho detto,  cosa ho letto?”  allora,  fermarsi un attimo e disegnare,  ogni capitolo ha sempre un disegno da colorare anche perché  a volte le cose che leggiamo possono non essere interessanti ma quando coloriamo facciamo le nostre rielaborazioni,  ci reinventiamo.   C’è  una parola greca molto bella che è  la poietica che è  molto di più  della poetica ed è  proprio l’arte di reinventare:  vi ricordate di quando eravamo poveri e lo sapevamo,  quando una maglia di lana era troppo corta o aveva un buco o si era macchiata,  nessuno buttava via,  le nostre nonne disfacevano i maglioni,  ne facevano una cocula  –  la mia nonna diceva così  –  e quel gomitolo era di quel maglione,  faceva parte di quel maglione però  quel maglione non serviva più,  non andava più  bene e allora si aveva il coraggio di dire  “non serve più”  però   lo si poteva disfare e inventare un’altra cosa che poteva servire.  Ecco,  quest’arte di disfare le maglie,  di imparare a dire quello che non serve più,  di imparare a disfarlo e non era mai un’azione individuale,  a volte era un’azione di più  persone,  di più  donne e di bambini intorno e imparare a inventare qualcosa di nuovo.

E allora,  quando coloriamo,  abbiamo letto cose possiamo condividerle o no,  ma noi rielaboriamo,  reinventiamo ciò che può  far bene a noi e allora è  proprio questo il desiderio di questo libro che vi fa anche viaggiare  -  io vivo da trent’anni in Brasile per cui io parlo a partire soprattutto dalla mia esperienza della mia vita in Brasile  -   e allora vi fa anche viaggiare per questa terra,  per questo mondo che sta vivendo un travaglio enorme:  noi siamo passati dalla dittatura alla democrazia e in pochi anni,  in meno di quindici anni adesso stiamo ritornando in un momento,  in un tempo che io spero sia breve,  ma in un momento in un tempo molto difficile,  molto buio di ritorno a sistemi dittatoriali.  Io ho visto questo cammino,  sono arrivata in Brasile durante la dittatura,  abbiamo costruito insieme con grandi lotte un Paese democratico e adesso si sta ritornando indietro.

E allora,  anche la domanda,   non dobbiamo mai sederci e dire  “siamo arrivati,  siamo arrivati in Italia,  in un Paese che ha una costituzione ”,  un Paese che riconosce i diritti e vediamo gli ultimi eventi,  non solo per chi arriva dai barconi ma anche per chi ha tutti i documenti in regola ed è nato in Italia,è vissuto in Italia ma i diritti si stanno sgretolando perché si sta sgretolando l’umanità e la  responsabilità:  e questo è  anche un libro per non perdere umanità  e responsabilità.

Grazie.

(trascrizione dell’intervento non rivista dall’autrice)

Video dell’intervento al link  https://www.youtube.com/watch?v=hSL6gn7_d0s  del Canale Youtube EGERTHE onlus –Giustizia Pace Integrità del Creato

 

 

 

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